La Malattia di Alzheimer: La Terapia

Allo stato attuale non esistono efficaci metodi di prevenzione né di cura per le forme di Demenza, per alleviare e ritardare i sintomi degenerativi vengono utilizzati trattamenti di natura farmacologica e non. La terapia farmacologica vede l’utilizzo di farmaci, in grado di inibire l’acetilcolinesterasi, responsabile del processo degenerativo, e bloccanti del recettore NMDA del glutammato, con lo scopo ultimo di attenuare e rallentare le manifestazioni cliniche. In concomitanza a trattamenti farmacologici, è consigliabile portare avanti anche terapie non farmacologiche, le quali hanno come principale focus: la relazione con il paziente, il suo ambiente di vita e l’assistenza nello svolgimento di attività quotidiane. L’ambiente di vita di una persona che convive con la malattia di Alzheimer deve essere, infatti, adeguato ai suoi bisogni, con l’obiettivo di facilitare il più possibile l’orientamento e lo svolgimento delle funzioni.

L’Alzheimer è una malattia caratterizzata da un esordio insidioso, con deficit inizialmente impercettibili che progrediscono inesorabilmente fino alla perdita dell’indipendenza nella vita quotidiana. Di conseguenza risulta importante un approccio flessibile ed appropriato al livello di funzionamento cognitivo del paziente, che intervenga sulla riserva cognitiva e sulle potenzialità residue della persona. La cura del malato di Alzheimer è molto complessa, in quanto la malattia investe tutte le sfere della persona, per cui è importante considerare l’individuo nella sua interezza, facendo attenzione a tutti gli aspetti della sua vita: fisica, emotiva e sociale.

È opportuno che l’analista valuti la ferita narcisistica, inflitta al paziente dalla malattia, e i meccanismi di difesa messi in atto al fine di preservare un senso di autostima e un senso di sicurezza di fronte al deterioramento progressivo delle proprie capacità, abilità intellettuali, talenti, e della propria personalità. È fondamentale che il terapeuta rispetti ed empatizzi con il bisogno del paziente di utilizzare il diniego come principale meccanismo di difesa per evitare la consapevolezza di aspetti della realtà esterna difficili da affrontare (Lewis, 1991).

Promuovere l’accettazione dei limiti cognitivi significa che il paziente deve essere esposto gradualmente alla realtà dei suoi deficit, con modalità che gli permettano di elaborare la perdita delle proprie capacità poco alla volta, settimana dopo settimana, lungo un ampio arco di tempo. Inoltre è importante che il terapeuta valuti il rischio di depressione, Zubenko e collaboratori (2003) hanno riscontrato un’alta frequenza di depressione maggiore in corrispondenza della comparsa dei problemi cognitivi, ed aiuti il paziente in una gestione della frustrazione e dell’angoscia che deriva dalla sensazione di un’imminente perdita del Sé e di una continua rimodificazione della propria personalità e del rapporto con gli altri. La memoria svolge un ruolo cruciale nel mantenimento di una continuità del Sé nella vita di una persona, di conseguenza è possibile portare avanti un lavoro che incoraggi ripetutamente i pazienti a raccontare episodi della propria vita. Con il progredire della malattia il terapeuta può così svolgere la funzione di “Io-ausiliario”, aiutando il paziente a rievocare episodio significativi e la storia complessiva della sua vita (Hausman, 1992). Questo lavoro ha una duplice funzione: da un lato permette di creare un rapporto con il paziente, riducendo l’isolamento che prova; dall’altra parte tramite la riproduzione di atteggiamenti ed episodi si rafforza l’identità personale. Spesso questi pazienti temono che la propria vita perdi con la malattia di significato e finisca per passare inosservata; i momenti in cui il terapeuta ascolta i loro racconti, diventando un testimone degli eventi che l’hanno caratterizzata, possono quindi acquisire uno straordinario valore terapeutico (Gabbard 2010; Poland 2000). Alcuni proveranno un rinnovato senso di significato, la sensazione di non aver vissuto invano. Secondo Butler (1963) questa strategia terapeutica porta il paziente ad una specie di esame retrospettivo della propria vita. Durante il processo di rievocazione possono emergere sia ricordi positivi e felici, sia memorie associate a tristezza e privazione, tali ricordi possono aiutare il paziente a elaborare i sentimenti di perdita che si trova a dover affrontare.

Durante un trattamento ritengo che in definitiva si possa fare qualcosa di più che non seguire una massima strategica. Fondamentali sono le ricerche, e i modelli di riferimento che permettono al professionista di avere un punto di riferimento e di non perdersi nel lavoro con il paziente. Ma ancor più importante è la Relazione che si crea nella stanza di terapia: c’è una persona alle prese con un’altra, e un dolore che deve essere ascoltato. Il vero psicologo deve imparare ad uscire dalla psicologia, o meglio dallo psicologismo. È necessario impegnarsi veramente, dedicarsi totalmente all’analisi, sentire empaticamente l’altra persona e comunicare con lei, cercando in più momenti di infondergli un po’ della propria sensibilità empatica.

Afferma Fromm:Nessun computer e nessuna macchina può osservare l’uomo vivo e intero: c’è solo uno strumento valido per questo compito: l’uomo che ha esperienza di sé. La tecnica analitica dipende in modo completo, a mio avviso, dalla capacità dello psicoanalista di fare di se stesso lo strumento principale della propria conoscenza. Ciò non significa che egli debba fare delle diagnosi o giudicare in modo soggettivo o intuitivo; egli, piuttosto, utilizza se stesso come strumento ·di comprensione. Questo è il suo microscopio.” (Anima e società, 1993).

Pertanto, l’ascolto e l’osservazione diventano strumenti indispensabili su cui si fonda la relazione di cura. La psicoanalisi non deve avere unicamente come obiettivo quello di alleviare i sintomi, quanto piuttosto “essa può essere usata anche come utile strumento nel processo di sviluppo spirituale di una persona” (Fromm, 1993). Non si può considerare il dolore e le manifestazioni sintomatiche unicamente come fattore limitante nella vita di una persona, essa deve avere uno sbocco e una finalità, raggiungibili anche attraverso un percorso di psicoterapia. L’incontro con il dolore e la malattia indubbiamente rappresenta un momento difficile e doloroso per la persona, che si trova ad affrontare la perdita progressiva di quanto l’ha definita fino a quel momento, la messa in discussione di tutte le proprie certezze e il suo riscoprirsi improvvisamente fragile e indifesa. Questo però non presuppone che una situazione sofferta e dolorosa non possa svilupparsi in un percorso di rinascita: accettare che la malattia faccia parte di noi stessi, della propria storia personale o familiare, e partire da questa accettazione per trovare un modo di vivere e convivere con essa. Una visione di malattia che non la rappresenti più unicamente come limitante rispetto alla vita che conducevamo o che avevamo in proposito di attuare, ma una visione, che nonostante il grande dolore provato, rispecchi una scelta rivolta alla vita. Un nuovo modo di vedere le cose, il mondo, noi stessi e gli altri, centrato sul qui ed ora, sul momento presente, sul rapporto reale ed autentico con un’altra persona, sulla possibilità di un incontro reale che permetta di sperimentare le proprie emozioni e di imparare dall’altro di fronte a me, che in maniera chiara e genuina mi rimanda a qualcosa.

L’Empatia diventa uno dei fattori terapeutici fondamentali, la capacità dell’analista di sentire le emozioni del proprio paziente, di percepirlo come soggetto simile a se, con il quale condividono qualcosa in comune. “Essere capace di empatia verso gli altri, e in grado di percepire il loro vissuto come se fosse il proprio. Tale empatia presuppone la capacità di amare. Comprendere gli altri significa amarli, non in senso erotico, ma in modo da arrivare a loro vincendo la paura di smarrirsi.” (Fromm, 1996). Si porta avanti un lavoro di incontro tra due menti, al fine di dare senso ai contenuti che in terapia emergono, ricollegarli all’esperienza del paziente e rispondere ai suoi bisogni interni. Entrare in contatto con la sofferenza, la gioia, l’emotività dell’altro, senza dirigere ma incontrando e accompagnando l’altro nel suo percorso, permette all’esperienza di essere quello che è, e di apprendere da essa in un processo continuo, fluido ed aperto alla sorpresa. Rogers (1983) ha rifiutato decisamente la riduzione della comprensione empatica ad una pura e semplice tecnica di “riflessione delle emozioni”, sostenendo che essa va definita “un modo di Essere” nel quale il terapista si immerge con la sua sensitività nel mondo esperienziale del cliente. L’obiettivo è quello di dare forma all’esperienza della persona, cercando di rendere un contenuto intollerabile, tollerabile, portare avanti un lavoro di risignificazione utile al paziente, al fine di vivere nel miglior modo possibile la sua vita.

Nel 1967 Feil N. adotta un approccio umanistico, definito “Terapia di Validazione” per lavorare ed incontrare anche persone che soffrono di Alzherimer., “Il modo in cui il soggetto vede ed interpreta la realtà circostante è più importante della realtà oggettiva.” (Feil, 1967). La parola “Validation” deriva dal verbo inglese “to validate” ovvero legittimare, riconoscere i sentimenti, le emozioni e i comportamenti della persona che si ha davanti. La terapia viene utilizzata per comunicare con i pazienti disorientati, aiutandoli in un lavoro di riconoscimento dei propri sentimenti e delle proprie emozioni. L’obiettivo è di cercare di comprendere la visione della realtà e di creare, da questo, contatti emotivamente significativi, ponendo al centro l’emozione ed il mondo del paziente. I benefici riscontrati da questa terapia sono: il sostegno all’autostima, la diminuzione dell’isolamento, la promozione della comunicazione con le altre persone e la riduzione dello stress e dell’ansia.

L’ascolto profondo permette di far entrare il messaggio nel profondo dell’anima. Il punto – afferma Fromm in Anima e Società- non è dunque quello di creare delle norme affinché le persone si somigliano, bensì quello di affermare la regola che ognuno deve giungere a una completa fioritura, a sbocciare completamente alla piena vitalità, e questo è del tutto indipendente dal fiore che è”. Un errore da non commettere è considerare il paziente unicamente per la propria malattia, dimenticandosi che davanti a noi c’è una persona. Bisogna lavorare con il dolore e l’emozione che ci porta, ma è necessario non dimenticare che la sua vita non si limita alla sua malattia.

Non è possibile considerare la psiche come una manifestazione ristretta, che si limita ad emergere con un sintomo. Come afferma Eraclito: i confini dell’anima non li troverai nemmeno se percorrerai tutte le strade. Chi scende nell’anima non deve fermarsi all’anima. Non deve fermarsi all’anima perché è l’anima stessa che va oltre”.

Riferimenti bibliografici

  • APA, American Psychiatric Association, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – Quinta edizione. DSM-5, Raffaello Cortina, Milano, 2015.
  • Butler R.N., The life review: an interpretation of reminiscence in the aged, Journal of Psichiatry, 26, 1963.
  • Comer R. J., Psicologia clinica, UTET Università, 2017.
  • De Beni R. et Co., Psicologia dell’invecchiamento e della longevità, il Mulino, 2015.
  • Feil N., Validation, Il metodo Feil, Minerva Edizioni, Bologna, 2013.
  • Fromm E. Anima e società., Mondadori, Milano, 1993.
  • Fromm E., L’arte di ascoltare, Mondadori, 1996.
  • Gabbard G.O., Introduzione alla psicoterapia psicodinamica, Raffaello Cortina, Milano, 2011.
  • Hausman C., Dynamic psycotherapy with elderly dementia patients, 1992.
  • Lewis L., Individual psycotherapy of the patient with cronic organic brain syndrome, Psychiatric Annals, 14, 1986
  • Lewis L., Langar K.G., Symbolization in psychoterapy with patients who are disabled, American Journal Psychotherapy, 48, 1994.
  • Rogers C., Un modo di essere, Giunti, 1983.
  • Weiner F., Cortisol secretion and Alzheimer’s disease progression, Biological Psychiatry, 1997.
  • Zubenko G.S. et Col., A collaborative study of the emergence and clinical features of the major depressive syndrome of Alzheimer’s disease, American Journal of Psychiatry, 160, 2003.

 Testo a cura di: Dott.ssa Dalila Paolino

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