Il ruolo della Famiglia

La cura del malato di Alzheimer è molto complessa, in quanto la malattia investe tutte le sfere della persona, per cui è importante considerare l’individuo nella sua interezza, facendo attenzione a tutti gli aspetti della sua vita: fisica, emotiva e sociale. L’incontro con il dolore e la malattia indubbiamente rappresenta un momento difficile e doloroso per la persona, che si trova ad affrontare la perdita progressiva di quanto l’ha definita fino a quel momento, la messa in discussione di tutte le proprie certezze e il suo riscoprirsi improvvisamente fragile e indifesa.

Dall’altra parte un concetto molto importante da non sottovalutare, è rappresentato dal contesto sociale nel quale la persona vive, e in particolare dalla Famiglia.

“We know that people who are suffering do not suffer alone.”

 “Sappiamo che le persone che soffrono non soffrono da sole.” (Aldridge 1990).

La malattia è infatti la principale responsabile di un complesso processo di adattamento che i membri della famiglia sono tenuti ad affrontare.  La demenza è una sindrome che coinvolge l’intero nucleo familiare, principalmente su due livelli: il primo riguarda l’impegno assistenziale, il secondo gli aspetti emotivo-relazionali della malattia. Gestire un malato con progressiva perdita di capacità e autonomia richiede un impegno notevole lungo tutto l’arco della giornata. Chi si prende cura del malato si trova bruscamente calato in un ruolo che non aveva previsto e per il quale si sente impreparato. Spesso nuovi incarichi richiedono anche l’acquisizione di nuove competenze, così un figlio si ritrova a svolgere il ruolo di madre accudente, e la madre quello di figlio bisognoso di cure.

Per questo motivo quando si prende in considerazione la malattia di un membro della famiglia, la persona che soffre non può mai essere considerata un “caso isolato” ma inevitabilmente influenza l’intero nucleo familiare.

Se pensiamo alla famiglia come sistema, all’interno della quale le persone ricoprono dei ruoli, attraverso i quali vengono riconosciuti dagli altri, e dai quali si rappresentano. Non si può non considerare come la diagnosi di una malattia degenerativa e il decorso progressivo dei sintomi, comportino la rottura inesorabile degli equilibri, fino a quel momento mantenuti. La malattia rende difficile, se non, impossibile mantenere certi ruoli, destabilizzando la passata quotidianità e creando un clima di smarrimento. Il processo di cambiamento spesso determina una crisi, intesa come necessità di riorganizzare una nuova vita per affrontare i nuovi compiti. Questa riorganizzazione e il suo esito dipenderanno da molti fattori, alcuni strettamente legati alla malattia e al malato, ma altri dalla disponibilità di risorse soggettive, strumentali e relazionali messe in atto dall’intero sistema familiare.

Afferma C. Rogers, psicologo statunitense : “Tutti abbiamo paura di cambiare. Una delle ragioni principali della resistenza a comprendere, è la paura del cambiamento: se veramente mi permetto di capire un’altra persona, posso essere cambiato da quanto comprendo” .

Gli interventi che si strutturano quando si lavora con la famiglia non hanno, infatti, come obiettivo ultimo la guarigione, bensì la promozione del benessere e del contenimento dello stress che emerge in una situazione del genere. Affiora inizialmente il bisogno da parte dei familiari di ricevere precise informazioni riguardo la natura, l’entità della sintomatologia, il decorso e l’evoluzione della malattia. La conoscenza è utile in quanto facilita la comprensione del problema ed aiuta a sviluppare nuove modalità di relazione con la persona malata più funzionali.

Da un lato, il clinico può e deve offrire interventi di psicoeducazione: spiegando come intervenire e gestire alcune situazioni tipiche, cosa sia più utile fare in certe dinamiche o semplicemente aiutare a strutturare una routine definita e ribadita con costanza, utile nella gestione del malato e della malattia.

D’altra parte si portata avanti un lavoro di sostengo nella ridefinizione dell’identità di ogni membro del nucleo familiare, agendo molto sul vissuto emozionale e sulla scoperta di canali comunicativi alternativi al linguaggio verbale che permettano una nuova modalità di interazione con la persona malata. “Se accetto l’altra persona come qualcosa di rigido, di già diagnosticato e classificato, di già formato dal suo passato, contribuisco a confermare questa ipotesi limitata. Se l’accetto come un processo di divenire, contribuisco, invece, al limite delle mie possibilità, a confermare e a rendere reali le sue potenzialità.” (Carl Rogers).

L’obiettivo finale è aiutare i familiari a sviluppare nuove modalità di relazione che possano sostenere l’autostima del paziente, ridurre le interazioni negative e portare avanti un lavoro di accettazione.

Accettare vuol dire essere consapevoli della concretezza della malattia, delle sue conseguenze e di una realtà che si modifica costantemente. Vuol dire riuscire ad accogliere l’altro con i suoi cambiamenti e i suoi limiti, e riconoscere la necessità di dover utilizzare canali comunicativi sempre diversi, mettendosi costantemente in gioco per riuscire a trovarli. Ma accettare vuole dire anche saper riconoscere il proprio vissuto come cargiver, i propri momenti di stanchezza, di frustrazione, di impotenza, e in ultima analisi l’accettazione della perdita di una persona cara.

 

Riferimenti bibliografici

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  • Vigorelli P., Alzheimer senza paura, Rizzoli, Milano, 2008.

Testo a cura di: Dott.ssa Dalila Paolino

 

 

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