Il Linguaggio Simbolico e L’Arteterapia nella Malattia di Alzheimer

In una fase iniziale della malattia, quando la capacità di introspezione e memoria sono ancora adeguate, è possibile portare avanti un lavoro con il paziente al fine di stabilire un’alleanza terapeutica che permetta al soggetto di elaborare i suoi vissuti, una propria visione del sé e della realtà in cui vive.

Ma cosa fare quando la parola inizia a mancare? Un aspetto cruciale è rappresentato dal fatto che queste persone possono essere raggiunte a livello emozionale ancora per molto tempo nonostante il deterioramento cognitivo. Le persone affette dalla malattia di Alzherimer hanno delle “isole di memoria” che, se scoperte e utilizzate, possono avere un effetto attivante e favorire ulteriori ricordi. È questo il motivo per cui  si cerca di lavorare con il paziente nel suo “momento presente”, nel suo “qui ed ora, anche attraverso l’introduzione di stimolazioni significative nelle attività quotidiane. Questa tipologia di lavoro non contempla unicamente l’aspetto cognitivo, ma anche e soprattutto quello emotivo: ecco che un certo gesto, uno sguardo, un silenzio, compiuto in una determinata situazione, diventa un elemento terapeutico molto importante, soprattutto se si considera che nel rapporto diadico tutto è legato al flusso comunicativo del momento. Ciò che rende la vita emozionale premessa ad ogni cura è il fatto che in essa sia sempre presente un aspetto relazionale, e cioè una costruzione, sia pure fragile e frammentaria, di dialogo e di ascolto, di silenzio e di intersoggettività che si costruisce dall’incontro di due persone. Anche in questo caso, come in altri lavori terapeutici, è la relazione con il paziente ad avere la funzione più importante, più di qualsiasi tecnica specifica nel produrre risultati positivi.

Afferma Fromm: “Nel linguaggio simbolico le esperienze interiori vengono espresse come se fossero esperienze sensoriali, cioè come qualcosa che abbiamo fatto o subito nel mondo esteriore; in esso il mondo esterno è un simbolo del mondo interno, un simbolo per le nostre anime e per le nostre menti.” (Il linguaggio dimenticato, 1993).

Il simbolo ed il linguaggio simbolico appartengono all’uomo e permettono ad esso di entrare in contatto con sé stesso e gli altri. Il simbolo diventa importante se compreso come prodotto psichico, portatore di un significato per l’individuo in quello specifico momento. L’origine del simbolo è ancorata archetipicamente all’inconscio, alla parte più istintuale dell’essere umano, ecco perché proprio come non abbiamo bisogno di imparare a piangere quando siamo tristi o a diventare rossi quando siamo adirati, anche il linguaggio simbolico è qualcosa che non si apprende. Il simbolico appartiene all’uomo, ed è universale in quanto ogni persona possiede le caratteristiche fisiche e mentali necessarie a comprenderlo. Di conseguenza il simbolo rappresenta la migliore espressione metaforica possibile di una situazione emotivamente significativa.

È attraverso questa prospettiva che risulta possibile comprendere gli autoritratti dell’artista americano William Utermohlen. I quadri rappresentano una dimostrazione di una modalità di interazione con il mondo, attraverso la pittura, nonostante la degenerazione causata dai sintomi progressivi della malattia di Alzheimer. In un’intervista la moglie afferma: “Nei quadri si vede lo sforzo di William di spiegare il suo Io che cambiava, le sue paure e la sua tristezza”.

William Utermohlen

Utermohlen utilizza i suoi autoritratti per portare avanti un dialogo con gli altri, con coraggio adatta la tecnica e lo stile pittorico alle proprie limitazioni percettive e motorie, riuscendo comunque a comunicare in maniera diretta il suo vissuto interno. Negli anni ripete sempre e solo il proprio volto: il proprio presente, il proprio “qui ed ora”, tutto il resto del mondo e delle relazioni scompare progressivamente. Gradualmente i particolari somatici svaniscono, mostrando un senso di identità sempre più frammentata. Al pari della parola, attraverso i dipinti, l’artista riesce a comunicare in maniera coinvolgente e forte tutto il suo sentire. Riesce nel suo intento, senza l’utilizzo di una comunicazione verbale, ma attraverso un linguaggio più primitivo, universale e presente in ogni uomo: la natura del linguaggio simbolico.

La creazione di oggetti personali offre l’occasione concreta di sperimentare codici comunicativi alternativi al verbale che permettano comunque di contattare parti di sé presenti e di entrare, tramite queste manifestazioni, in contatto con gli altri.

Gli interventi di arteterapia si fondano infatti su due aspetti principali: il setting non giudicante e la possibilità di fare esperienza. Un setting di supporto e senza giudizio permette alla persona di provare ad utilizzare le sue competenze residue, senza precludersi l’esperienza per la paura del fallimento del compito. D’altra parte permette al paziente, come nel caso dell’artista Utermohlen, di dar voce al suo vissuto, attraverso un altro canale comunicativo. Dare forma ad un bisogno interno, che riesce in questo modo ad emergere, promuove un ritrovato equilibrio e integrazione dell’Io, nonostante il deterioramento della malattia. È la persona che sceglie il colore, il soggetto o i materiali da utilizzare, il processo artistico formatosi è un’espressione della propria individualità, ed esso si raffigura come ulteriore canale che rispecchia il livello di funzionamento del qui ed ora del paziente. Un altro processo importante da considerare è la socializzazione che viene portata avanti nei gruppi di arteterapia, dove generalmente i pazienti si muovono da una situazione di isolamento, caratteristica della patologia, verso una modalità di relazione che li porta ad interagire sia con il conduttore che con il gruppo, ognuno secondo le proprie possibilità, e a rimettersi in contatto non solo con gli altri ma soprattutto con sé stessi. Questa possibilità di movimento psichico, insieme ad una ripresa della relazione con l’altro, determina nei pazienti una sensibile diminuzione del disagio (Galbati e Bressan, 2016).

Riferimenti bibliografici

  • Aldridge D, Where am I? Music therapy applied to coma patients, Journal of Social Research in Medicine, vol. 83, 1990.
  • APA, American Psychiatric Association, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – Quinta edizione. DSM-5, Raffaello Cortina, Milano, 2015.
  • Fromm E., Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano, 1993.
  • Fromm E., L’arte di ascoltare, Mondadori, 1996.
  • Gabbard G.O., Psichiatria psicodinamica. Quinta edizione basata sul DSM-5, Raffaello Cortina, Milano, 2015.
  • Gabbard G.O., Introduzione alla psicoterapia psicodinamica, Raffaello Cortina, Milano, 2011.
  • Galbiati E., Bressan L., Recupero di immagine corporea e identità nell’Alzheimer grave attraverso l’arte terapia, ATI-APIArT Master in Linguaggi artistici.
  • Rogers C., Un modo di essere, Giunti, 1983.
  • Roth W., Incontrare Jung, Introduzione alla psicologia analitica, Edizioni Scientifiche Ma.Gi. srl, Roma 2011.
  • Villani D, Raglio A., Musicoterapia e demenza, Giornale di Gerontologia, 2004.

Testo a cura di: Dott.ssa Dalila Paolino

 

 

 

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